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La tragedia dell’infedele

Illustration by Byam Shaw for a London edition of Poe’s stories dated 1909

L’errore della colpa e il fatalismo della condanna

Matteo Maselli

Desde el desierto llegó
en su azulejo el infiel.
[…] Sabía curar con palabras,
lo que no puede cualquiera.

-Jorge Luis Borges, Milonga de l’infiel, 1985



 

All’infuori di un’accurata monografica, la pretesa di un elenco completo e aggiornato - ammesso che sia possibile realizzarlo - di tutte le occorrenze letterarie sul tema dell’infedeltà non può che essere disattesa [1]. Tuttavia, circoscrivendo le intenzioni di studio, è plausibile indagare alcuni «casi tipo» dai quali poter dedurre degli schemi narrativi condivisi in letteratura che presuppongono un ritorno all’ordine etico e sociale rotto dall’infedele infliggendo a quest’ultimo una condanna esemplare. Pertanto, consapevole che la sola successione di fatti e personaggi sia una sterile prova d’erudizione, con questo mio contributo cercherò di mostrare come l’infedeltà verso un’istituzione consacrata da regole sociali attivi un meccanismo psichico di autocondanna (senso di colpa) che conduce l’infedele alla morte, intesa come evento punitivo e restauratore dello status quo che era venuto meno.

I.     Alle sorgenti della colpa

La profondità dell’animo umano, afflitto o glorificato da ebbrezze emotive, è fonte d’ispirazione inestinguibile per la pratica letteraria. Tra le passioni d’indubbio fascino, l’infedeltà non è estranea ad una certa prassi compilativa compiuta da autori diversi tra di loro ma tanto vicini nel simbolismo della resa narrativa.

Tra le molte derive accolte dall’infedeltà nel complesso orizzonte della letteratura [2], quella statisticamente più fruita porta a considerala come principio d’origine di una pena risolutiva, qual è la morte dell’infedele.

Trattare della morte come esito dell’infedeltà costringe a qualificarla come punizione auto-indotta, condizione che si manifesta quando la lucidità intellettiva rende consapevoli delle azioni compiute e la razionalità che ne consegue porta il colpevole a soffocare sotto il peso schiacciante del senso di colpa. L’essere edotti dell’immoralità dell’atto genera coscienza del peccato come introiezione del soggetto:

Quei terribili bastioni con cui l’organizzazione statale si proteggeva contro gli antichi istinti di libertà – le pene appartengono soprattutto a questi bastioni – fecero sì che tutti codesti istinti dell’uomo selvaggio, libero, divagante si volgessero a ritroso, si rivolgessero contro l’uomo stesso. […] ecco l’origine della «cattiva coscienza» (Nietzsche 284)

Illustration by Charles Léandre for Paris edition of Madame Bovary dated 1874

Nella Zur Genealogie der Moral (1887) Nietzsche, interrogandosi sull’eziologia della colpa, definisce la fedeltà il rispetto che l’uomo ha delle proprie esigenze di vita espresso con la tutela di una personale potenza energetica. Il consiglio nietzschiano di dare priorità alle necessità individuali è dovuto ad una condizione particolarmente comune per l’uomo del suo tempo, così come per quello del nostro: un’eccessiva forza pulsionale, non calibrata rispetto alle effettive esigenze, induce l’uomo ad espellere il superfluo passionale. Tuttavia, i «bastioni» della società - come l’etica e la morale - ostruiscono il flusso in uscita, obbligandolo a torcere il percorso scelto e a rivolgersi verso lo stesso uomo che voleva privarsene. Il surplus energetico si trasforma così in odio riflesso che il soggetto applica a sé stesso. Si comprende perciò che è dall’interiorizzazione (Verinnerlihung) che nasce la «cattiva coscienza» poiché la colpa è «l’autosservazione, l’autaccusa e l’autocondanna da parte di una coscienza sdoppiata» (Ricoeur 443).

Le medesime leggi che impediscono alle pulsioni di esteriorizzarsi verranno poi ben teorizzate da Freud che le farà confluire nel Super-Io, rappresentazione intrinseca della legge nonché una delle tre istanze psichiche della moderna psicanalisi.

La colpa, dunque, non deriva dalla struttura del soggetto in quanto figura razionale, ma è una componente interamente riducibile a potenze psichiche:

La coscienza morale è la percezione interna della riprovazione di determinati impulsi di desiderio che sorgono in noi. […] questa riprovazione non ha bisogno di richiamarsi a nient’altro al di fuori di sé […]. Questo fatto emerge ancora più chiaramente nel senso di colpa, nella percezione della condanna interiore di atti con i quali abbiamo realizzato determinati impulsi di desiderio (Freud 107)

Sulla questione si è espresso anche Georg Simmel ricordando come la colpa:

può sorgere solo in quanto, da un punto di vista psicologico, il dovere si impone vittoriosamente contro i movimenti opposti della volontà (Costa 52)

II.     Il soliloquio punitivo del peccatore

Il timore delle ripercussioni per un’azione compiuta, l’asfissia per un senso di colpa assillante e il sentore dell’avvicinarsi di una condanna preannunciata dal cedimento della volontà, trovano perfetto riscontro in uno dei più rappresentativi autori della letteratura nordamericana, che con puro virtuosismo è riuscito a riassume in poche righe il vorticoso riflettere di Nietzsche, Freud e Simmel:

Chi conosce i misteri della volontà in tutta la sua potenza? L’uomo non concede sé stesso agli angeli e nemmeno interamente alla morte, se non quando s’indebolisce la sua volontà (Poe 159)

Sono le ultime parole che Edgar Allan Poe fa pronunciare a Ligeia prima della sua languida morte. Poe sa che la volontà è uno scudo per l’uomo che tentenna al cospetto delle accattivanti passioni distruttive poiché ha compreso che la rinuncia alla difesa equivale ad una condanna a morte. La paura delle funeste ripercussioni che possono scaturire dall’infedeltà è apertamente allusa da Poe in Eleonora (1841):

La maledizione che invocai su di me da Lui, e da lei, santa nei Campi Elisi, se avessi mai tradito questa promessa [non avrebbe mai rivolto il suo amore ad altra donna dopo la morte di Eleonora], comportava una pena talmente atroce che non mi permette di ricordarla qui (Poe 152)

Illustration by Orest Vereysky for Moscow edition of Ana Karenina, 1984

Il riferimento ad una pena indicibile come condanna inevitabile dell’atto d’infedeltà annovera di diritto il nome di Poe nel solco di una tradizione che riconosceva nella punizione il motivo di riequilibrio di un evento di rottura rispetto ad una istituzione consacrata (famiglia, patria, antenati, ecc).

Esempi indicativi di come l’infedeltà verso un’istituzione ufficiale possa condurre al sommo castigo della morte sono rintracciabili in due eventi canonici della letteratura greca: la mesta uccisione di Polinice ne I sette contro Tebe di Eschilo e la propensione alla morte di Socrate nel Critone di Platone.

Nella tragedia eschilea il corpo privo di vita di Polinice giace al suolo fuori le porte della città di Tebe - sembrano scorgersi anche qui i «bastioni» nietzschiani - senza aver ricevuto degna sepoltura. La decisione di lasciare alle intemperie e agli attacchi delle belve il copro martoriato del figlio di Edipo è maturata in Creonte, sovrano di Tebe, come condanna al deplorevole comportamento di Polinice che, infedele verso la patria, ha lasciato che il fato lo conducesse alla morte:

Suo fratello, questa carne morta di Polinice, sarà scagliato là fuori. Senza fossa, strazio di cagne. Lo merita: sconvolgeva il paese di Cadmo, se un dio, bloccandolo, non gli inchiodava la picca. Anche caduto, conserva per sempre la chiazza del crimine contro i numi nativi: nel suo sacrilegio, sferrava l'armata raccolta da fuori, e tentava la presa di Tebe. Quindi la decisione è che stormi d'uccelli, a folate, siano fossa a quest'uomo. Sconti, nella degradazione, il giusto grado di pena (Eschilo)

Nel circuito chiuso del destino segnato dall’ereditarietà della colpa di Edipo [3], l’evento che innesca i meccanismi inevitabili del destino di Polinice è la frattura della fedeltà nella patria cittadina, affronto a cui fa seguito il «giusto grado di pena» della morte.

Nel dialogo platonico del Critone, l’infedeltà di Socrate va ricercata nel suo sottrarsi alla libertà e nell’accogliere desideroso la pena di morte.

Al discorso di Critone che lo invita a fuggire dal carcere, Socrate, declinando la proposta dell’allievo, ribadisce che non è lecito reagire all’ingiustizia con altra ingiustizia:

Non bisogna tenere in massimo conto il vivere in quanto tale, bensì il vivere secondo virtù e giustizia (Critone 123)

Per quanto non sembri, l’infedeltà qui espressa da Socrate è una forma alternativa di quella vista in Polinice. Lo si comprende ricordando che in Platone vi è una serrata corrispondenza tra l’anima della città e l’anima dell’individuo che si sovrappongono in una sola compatta entità. Attentare a sé stessi è pertanto attentare alla patria. Tuttavia, contrariamente ad Eschilo, nel Critone si consuma un atto di infedeltà eroico che avrebbe meritato plausi e riconoscimenti di lode. Socrate, infatti, si oppone all’ingiustizia della legge nello stesso istante in cui decide di rispettarla: se nessuno può arrogarsi il diritto di spezzare il sistema giuridico umano, il cittadino onesto ha il dovere di convincere i suoi simili della necessità di un cambiamento della legge se ritenuta ostacolo al quito vivere. Dando sfoggio di tutto il suo ingegno Paltone affiderà alla Prosopopea finale, personificazione delle leggi, il messaggio conclusivo del dialogo:

In ciò consiste la giustizia: che non si deve disertare, né ritirarsi, né abbandonare il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro luogo, bisogna fare quello che la Patria e la Città comandano, oppure persuaderle in che cosa consiste la giustizia; e, invece, far uso di violenza non è cosa santa, né nei confronti della madre, né nei confronti del padre, né, tanto meno, nei confronti della Patria (Critone 139)

Per cui, Socrate attenta alla sua persona in nome di una moralità da rinnovare e da coraggioso martire accetta benevolo la morte che segue all’infedeltà pur di inaugurare una nuova epoca in cui non dovrà più esserci bisogno del castigo: 

[…] chi vuole essere felice deve, evidentemente, cercare di esercitare la temperanza, fuggire a piè veloce la dissolutezza e, innanzi tutto, volgersi con ogni cura a non aver bisogno di castighi; ma se ne avesse bisogno, egli o chiunque gli stia a cuore, privato cittadino o stato, deve pagare il suo debito con la giustizia, deve essere castigato, se vuole essere davvero felice. Questo, sono convinto, il fine a cui bisogna tenere fisso lo sguardo nella vita, a questo scopo volgere ogni sforzo, nostro e dello stato, perché giustizia e temperanza mettono radice in chi voglia essere felice (Gorgia 150-151)

Dalla saggezza socratica si evince che la felicità è perseguibile nel rispetto della giustizia e della temperanza, rafforzando il controllo delle passioni e ripromettendosi di scacciare ogni tentazione che incalzi ad assecondare futili desideri: è il potenziamento della volontà che Poe ritiene conditio sine qua non per scongiurare ripercussioni così tremende da non poter neanche essere nominate.

Ritornando a Poe, è lecito supporre che sia giunto ad una simile conclusione dopo aver esplorato l’abbandono passivo a ciò che poi stigmatizzerà, le cui tracce possono rinvenirsi in Morella (1835).

In questa breve composizione Poe narra la sventura di un giovane padre per colpa di una atavica forma di infedeltà verso la moglie. In Morella l’infedeltà non è consumata nel tradimento bensì nella cessazione di un amore al quale il protagonista si era inizialmente lasciato andare seppur non vi avesse mai creduto realmente. Per il giovane vale ciò che Poe annota a proposito della relazione tra Egeo e Berenice:

i miei sentimenti non erano mai stati del cuore, e le passioni erano sempre state della mia mente. […] io l’avevo veduta […] non come un oggetto d’amore, ma come il tema della speculazione più astrusa (Poe 147)

Ruggiero Rescuing Angelica by Jean Auguste Dominique Ingres, 1819

Lo sfiorire dell’amore porta addirittura all’auspicio della morte della donna non desiderata. In un crudele gioco di bilanciamenti, la maledizione per l’inconsueta infedeltà si manifesta nella dipartita di colei che il protagonista invece amava intensamente, la figlia. L’influsso vendicativo della tradita è palesato dal nome Morella che il padre, inibito nella facoltà raziocinante, dà alla figlia. La ragazza verrà così battezzata con lo stesso appellativo della donna che spira quando la piccola vagisce per la prima volta.

Come per Edipo, la condanna del padre è la morte della figlia [4], idealmente sancita quando l’identità di quest’ultima è sovrapposta con quella della madre. Per cui, la gravità della pena del padre è tale che il sopraggiungere della morte è autorizzato allorché l’uomo nomina per la prima volta la figlia, rendendosi indiretto autore dell’estremo atto che ha posto fine all’unica forma della sua felicità.

Malgrado le ripicche punitive per controbilanciare comportamenti infedeli, non mancano in Poe situazioni in cui l’apprensione del senso di colpa rimanga solo un tenue sentore diluitosi senza esiti malevoli.

Nel già menzionato Eleonora (1841), il protagonista disattende alla promessa d’amore eterno stipulata con la donna dell’omonimo titolo e «senza temere la maledizione» (Poe 153) che aveva invocato su di sé qualora lo avesse fatto, sposa, morta Eleonora, la giovane Ermengarda. Qui, tuttavia, non c’è alcuna ripercussione nefanda sull’infedele. Ciò è dovuto alla benevolenza della tradita che, comprendendo il soffrire solitario dell’uomo, accondiscende ad una mediazione salvifica per colui che continua ad essere il suo autentico amore. In aggiunta, faccio notare come l’etimologia del nome Ermengarda si presti a molte interpretazioni, tra le quali si attesta anche il significato di «grande protezione» o «universale difesa» (ermin / irmin = universale / grande / potente + gard = protezione / difesa). Ermengarda è dunque un riparo sicuro per un infedele perdonato.

Il nome di Ermengarda è appiglio ideale per un altro celebre caso di infedeltà che ha, inversamente al racconto di Poe, conseguenze mortifere. Mi riferisco alla manzoniana Ermengarda che nell’Adelchi (1822) si lascia morire per l’inedia e l’atrocità delle pene d’amore dopo che il suo sposo l’ha ripudiata per unirsi in matrimonio con un’altra donna:

Sparsa le trecce morbide

Sull'affannoso petto,

Lenta le palme, e rorida

Di morte il bianco aspetto,

Giace la pia, col tremolo

Sguardo cercando il ciel.

Cessa il compianto: unanime

S'innalza una preghiera:

Calata in su la gelida

Fronte, una man leggiera

Sulla pupilla cerula

Stende l'estremo vel

(Adelchi 76)

Destinataria di una condanna ingiusta poiché soggetto che subisce l’infedeltà, anche Ermengarda, come Socrate, riuscirà ad accettare con composta serenità le decisioni della provvidenza non appena comprenderà che il suo dolore riscatterà tutto il male che la crudele stirpe longobarda ha inflitto atrocemente ad altre infelici come lei.

Paolo e Francesca by Mosè Bianchi, 1877.

L’Ermengarda manzoniana apre le porte alla letteratura italiana, ricca di autorevoli casi d’infedeltà verso istituzioni riconosciute, sanzionati con il «passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato» (Promessi Sposi 465), come Manzoni definisce la nera morte.

Nel V canto dell’Inferno dantesco si consuma una delle più liriche e struggenti condanne d’amore per la violazione dell’ordine sacro dell’istituzione famigliare. L’infedeltà di Paolo e Francesca, disonoratisi col peccato d’adulterio, ha confinato i due amanti al turbinio violento ed eterno dalla bufera dei lussuriosi. Il senso di colpa prima teorizzato ritorna qui nella pietà che Dante prova per i due giovani di Rimini e si rivela come turbamento nato dalla considerazione della potenza devastatrice della perversione dei nobili affetti:

Mentre che l'uno spirto questo disse,

l'altro piangea; sì che di pietade

io venni men così com' io morisse;

e caddi come corpo morto cade.

(Inf. V, vv. 139-142)

Riflettendo sulla composizione della bufera dei lussuriosi, Dante si sente venir meno sotto gli attacchi della pietà dopo che Virgilio gli ha elencato i nomi delle anime lì condannate:

 Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito

nomar le donne antiche e' cavalieri,

pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

(Inf. V, vv 70-72)

Oltre ad aperti rimandi ad illustri esempi d’infedeltà [5], Dante condensa nel verso 71 («nomar le donne antiche e’ cavalieri») un nascosto riecheggiare della condizione adulterina, abituale nei rapporti tra dame e cavalieri dalla tradizione poetica dell’amor cortese [6]. Il riferimento è allusivo anche agli antichi cavalieri dei romanzi carolingi e arturiani, collegamento che appare evidente associando il sopracitato endecasillabo ai versi 109-110 di Purg. XIV:

le donne e' cavalier, li affanni e li agi

che ne 'nvogliava amore e cortesia

(Purg. XIV, vv. 109-110)

La coppia donne e cavalieri sarà poi resa immortale dal celebre attacco ariostesco dell’Orlando Furioso:

Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori,

le cortesie, l'audaci imprese io canto

(Orl. Fur. I, I, 1-2)

dove l’infedeltà, oltre ad assumere sembianze religiose poiché associata alle disapprovate azioni dei Saraceni che occupano il Santo Sepolcro di Gerusalemme, è ritenuta una proprietà caratteristica dell’essere femminile:

Se ben di quante io n'abbia fin qui amate,

non n'abbia mai trovata una fedele

(Orl. Fur. XXVII, CXXIII, 1-2)

Le fraudi che le mogli e che l'amiche

sogliano usar, sapea tutte per conto:

e sopra ciò moderne istorie e antiche,

e proprie esperienze avea sì in pronto,

che mi mostrò che mai donne pudiche

non si trovaro, o povere o di conto;

e s'una casta più de l'altra parse,

venìa, perché più accorta era a celarse.

(Orl. Fur. XXVII, CXXXVIII, 1-8)

Ritornando a Dante, la riflessione condotta sull’infedeltà troverà una maggiore organicità nel IX Cerchio dell’Inferno dove è riservato a tale peccato, il più grave nella gerarchia infernale, l’ultima sezione della prima cantica [7]. Qui, con atteggiamento empatico del tutto antitetico rispetto ad Inf. V, lo stato d’animo di Dante non concede più spazio alla pietà.

Psyché aux enfers (1865) by Eugène Ernest Hillemacher

Conclusioni

Termino questo mio contributo ponendo una domanda che potrebbe stimolare future ricerche di settore.

Per quale motivo, nonostante la consapevolezza che l’indebolimento della volontà e la conseguente commissione di colpa conducano ad una fatale punizione, non ci si adoperi per evitare quanto già si presuppone? Perché ai proclami d’avvertimento manca il rispetto del suggerimento? Perché agire infedelmente se si prefigura il sentore della morte?

Essendo la potenziale perdita più alta rispetto ad un eventuale guadagno, la convinzione freudiana dell’attrazione per la violazione dei divieti potrebbe qui non bastare come risposta esaustiva. Più confacente al quesito è invece l’ipotesi che porta a considerare l’apparire della colpa come momento coincidente con la genesi dell’essere umano [8]. Non per pura retorica ad inizio di questo lavoro ho sottolineato che la coscienza del peccato è intrinseca al soggetto. La sua identità si forma quando è pronto ad assumersi lucidamente il problema della colpa:

Il Sé si grava della coscienza della colpa perché capisce che dovrebbe altrimenti rinunciare a sé stesso (Cohen 266) 

L’io pluristratificato dell’uomo e la sua morale scaturiscono dal farsi carico delle responsabilità delle proprie azioni e dalla prontezza di subirne stoicamente le conseguenze, soprattutto se si avrà a che fare con severi castighi. Se l’uomo possiede un’etica è perché si ritiene fautore delle proprie azioni:

 L’ente […] non solo è tale da potersi coprire di colpe, ma è colpevole nel fondamento del suo essere; questo essere-colpevole costituisce la condizione ontologica della possibilità dell’esserci di potere […]. Questo essere-colpevole essenziale è […] la condizione esistenziale della […] moralità in generale (Heidegger 347)

Ancora una volta, con largo anticipo su altri campi del sapere, la letteratura ha saputo insegnare in silenzio una lezione dalla portata millenaria, intagliando il vólto dell’uomo nel quale tutti potranno riconoscersi.


Bibliografia

Ariosto, Ludovico, Orlando Furioso, 2 voll., Garzanti: Milano, 1964.

Cohen, Hermann, Etica della volontà pura, Napoli: Edizione scientifiche italiane, 1994.

Costa, Vincenzo, Giustizia, responsabilità e legge. Un percorso fenomenologico nella filosofia moderna e contemporanea, Brescia: Morcelliana, 2013.

Dante, Alighieri, La Divina Commedia, 3 voll., Firenze: La Nuova Italia Editrice, 1981.

Di Girolamo, Costanzo, I Trovatori, Torino: Boringhieri, 1989.

Eschilo, I sette contro Tebe, Mitologia e Dintorni, 2005,

https://www.miti3000.it/mito/biblio/eschilo/sette_tebe.htm

Freud, Sigmund, Totem e tabù. Concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici, Torino: Boringhieri, 1982.

Heidegger, Martin, Essere e tempo, Milano: Longanesi, 1970.

Manzoni, Alessandro, Adelchi, Firenze: Sansoni, 1986.

—. I promessi sposi, Santarcangelo di Romagna: Rusconi Libri, 2004.

Nietzsche, Friedrich Wilhelm, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Milano: Adelphi, 1984.

Platone, Critone, Milano: Bompiani, 2010.

—. Gorgia, Roma-Bari: Laterza, 2010.

Poe, Edgar Allan, Tutti i racconti, le poesie e «Gordon Pym», Roma: Newton Compton, 2011.

Ricoeur, Paul, Il conflitto delle interpretazioni, Milano: Jaka Book, 1996.


Notas

[1] A titolo di corredo indico di seguito alcuni noti lavori nei quali potranno rintracciarsi una parte dei tratti dell’infedeltà che esaminerò nel seguente saggio: l’espiazione della colpa dell’infedeltà da parte di un innocente in Die Wahlverwandtschaften (1809) di Goethe; l’imprevedibilità amorosa di Hester in The Scarlet Letter (1850) di Hawthorne; l’amore adulterino auspicato ma mai concretizzato in L’Éducation sentimentale (1869) di Flaubert e l’ancor più noto comportamento libertino di Emma in Madame Bovary (1857); il suicidio come atto inevitabile di acquietamento morale in Anna Karenina (1877) di Tolstoj; l’evoluzione sessuale di Constance in Lady Chatterley’s Lover (1928) di Lawrence; i ripetuti e calcolati tradimenti di Dean Moriarty opposti all’incapacità di Sal Paradise di sovrapporre amori distinti nonostante ne abbia il desiderio in On the Road (1957) di Kerouac; l’insolubile necessità di più relazioni sessuali della studiosa inglese Liz Norton in 2666 (2004) di Bolaño.

[2] Oltre ad occasione di tragici eventi, l’infedeltà può altresì produrre momenti di bonaria comicità nei quali il tradito, da buon ingenuo, è solito finire scalzato dalla maggiore astuzia del traditore. Il quadro narrativo in cui si situa tale comicità è prevalentemente famigliare e coinvolge coniugi dai rapporti instabili.

Per la robustezza dell’intreccio, un esempio perfetto di comicità adulterina è la seconda novella della settima giornata del Decameron di Giovanni Boccaccio intitolata Peronella. Nel racconto una donna riesce ad ingannare il marito e a consumare uno dei tanti desideri carnali con l’amante addirittura in presenza dello sposo mentre questo, ingannato spudoratamente dal rivale, è convinto ad infilarsi in una botte per controllarne la qualità ai fini di un’ipotetica vendita.

Grande emulatore di Boccaccio, anche Chaucer si appella alla sfrontatezza e all’astuzia femminile per inscenare un’irreale comicità scaturita dalle azioni dell’infedele. Se nel The Manciple’s Tale, racconto del IX frammento della raccolta The Canterbury Tales, il tradimento è punito con la morte, in Merchant’s Prologue and Tale l’assurdità della situazione è tale da giustificare agli occhi del tradito la chiara colpa della traditrice, una moglie che riesce a convincere il marito della sua innocenza anche se colta in flagrante.

Infine, cito un caso raro di manipolazione dell’infedeltà, in cui la comicità è addirittura adattata ad un particolare modo di parlare. Si tratta della commedia La Moscheta (1527-1531) scritta da Angelo Beolco detto il Ruzzante. Il titolo rievoca il «parlar moscheto», modo dialettale di indicare la ben più raffinata lingua fiorentineggiante contrapposta al dialetto delle campagne di Padova. In questo lavoro il personaggio di Ruzzante si traveste, parlando «moscheto», per mettere alla prova la fedeltà della moglie Betia che, compreso l’inganno, lo punisce riallacciando una relazione adulterina con un compare del marito.

[3] Avendo ucciso per errore il padre Laio e sposato la madre Giocasta, Edipo maledice i suoi figli condannandoli ad una tragica fine.

[4] Oltra alla morte dei figli Eteocle e Polinice, anche le due figlie di Edipo, Antigone e Ismene, condivideranno lo stesso drammatico destino dei fratelli.

[5] Si pensi a «colei che s’ancise amorosa, / e ruppe fede al cener di Sicheo» (Inf. V, vv. 61-62) , la Didone virgiliana che per amore di Enea era venuta meno alla promessa di rimaner fedele alla memoria del marito Sicheo.

[6] Cfr. Di Girolamo 1-266.

[7] L’infedeltà nella forma di tradimento è punita nel Cocito, il lago ghiacciato suddiviso in quattro zone concentriche: la Caina, che accoglie i traditori dei parenti immersi fino al collo nel ghiaccio e con il viso rivolto verso il basso; l’Antenora dove vi sono i traditori della patria sommersi con la testa eretta; la Tolomea dove sono distesi supini i traditori degli ospiti; la Giudecca i cui traditori dei benefattori sono completamente avvolti dal ghiaccio.

[8] D’altronde, non è un caso che per il credente cristiano la finitezza della carnalità derivi dalla colpa originaria dei suoi progenitori Adamo ed Eva


Matteo Maselli is a graduate student of literature and linguistics at the Univeristy of Bolgna.